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Il mistero delle isole Kerguelen,il diavolo Devonshire

12 Min. lettura

Il mistero delle isole Kerguelen

di Francesco Lamendola

(Articolo pubblicato sulla Rivista “Il Polo” dell’Istituto Geografico Polare, fondato da Silvio Zavatti, vol. 1, 2007, pp. 57-71.)

Il fatto:

Maggio 1839, emisfero Sud.

Nel cuore del temibile inverno australe, alcuni uomini stanno avanzando sul terreno diseguale di una sperduta e deserta isola di origine vulcanica (1).

Là dove le acque azzurre dell’Oceano Indiano si confondono tumultuosamente con quelle verde scuro dell’Antartico. Le cui onde spazzate dai venti dominanti dell’Ovest s’imbiancano di spuma.
Mano a mano che si allontanano dalla riva, il fragore del mare si attenua e alla fine scompare.Ed ogni cosa sembra stemperarsi in un’atmosfera strana ed arcana, sotto un cielo plumbeo e uniforme.

Uno spesso strato di neve copre il terreno ed i suoni giungono attutiti dall’atmosfera umida e fredda e dal soffice mantello candido che ricopre ogni cosa, come se tutta la scena fosse per incanto scivolata in un’atmosfera senza tempo.

Del resto, non vi sono altri rumori che quelli prodotti dagli insoliti visitatori:

un gruppetto di ufficiali e marinai della nave di Sua Maestà britannica Erebus. Vi è un veliero di sole 370 tonnellate e appena 26 uomini d’equipaggio. E la sua gemella, Terror.(2)

Minuscole le navi ed esiguo il loro carico umano. Ciò fa apparire ancor più opprimente, per contrasto, il grandioso ma triste spettacolo di quella natura selvaggia. Spettacolo cui a suo tempo è stato imposto, non a caso, il nome eloquente di Isola della Desolazione.(3)

Il mistero delle isole Kerguelen

Cartina delle isole tratta dal web

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

Nessuna fronda di verzura stormisce al soffio incessante dei venti australi. Poiché gli alberi non allignano in quei luoghi inospitali. E le uniche foreste esistenti sono quelle fossilizzate. Un’ estrema e patetica testimonianza di un tempo remotissimo in cui il clima dell’isola dovette essere ben più dolce e accogliente. Probabilmente di tipo sub-tropicale.(4)

L’unica pianta che si avvicini in qualche misura alle dimensioni arboree era una curiosa specie di cavolo gigante. Detto cavolo delle Kerguélen (5)

Che non era sfuggito alla vigile attenzione del medico di bordo, sir John Dalton Hooker (6)

Allora un giovane pressochè sconosciuto ma che più tardi sarebbe divenuto un botanico famoso. Tra i più celebri del suo tempo. (7) Allo stesso modo, il candido manto di neve non appare segnato dal passaggio di alcun essere vivente. Poiché nessun mammifero terrestre vive in quelle remote latitudini. Né tanto meno alcun rettile o anfibio, animali che abbisognano di un clima decisamente più mite. (8)

Mano a mano che i visitatori ardimentosi di quel luogo enigmatico si allontanano dalla riva del mare. E si lasciano alle spalle il rumore della risacca e la rassicurante sagoma della loro nave alla fonda nel porto naturale (9).

La ricognizione verso l’interno si trasforma in una marcia dai contorni vagamente surreali.

Il profondissimo, millenario silenzio che avvolge ogni cosa.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

 

La quiete innaturale, indecifrabile che sembra tutto avvolgere. La consapevolezza che forse mai piede umano ha preceduto i loro passi danno veramente a quegli uomini la sensazione d’esser giunti agli estremi confini del mondo.

Eppure, nonostante la intensa nota di malinconia che lo pervade, il paesaggio reca in sé una sottile sfumatura di fascino.

Difficile da definire ma nondimeno evidente.

Quasi una bellezza arcana e primigenia che la Natura possente ha voluto imprimere perfino in quelle lande desolate.

Mentre alzano lo sguardo lungo le pendici del monte Ross, che spinge la sua vetta ghiacciata a duemila metri d’altitudine (10). Sotto una densa coltre di nubi grigie, gli uomini si sentono terribilmente piccoli, fragili, in un certo senso. Così direbbe Lucrezio – casuali (11). Come ospiti inattesi di uno spettacolo grandioso che non per essi era stato allestito.

Ecco le parole con le quali, circa un secolo dopo, un ufficiale della Marina da guerra germanica descriverà quei luoghi e la loro strana atmosfera.

“Un ruscello gorgogliava tra sassi e ciuffi d’erba lungo il sentiero. Intorno a noi le montagne si alzavano avvolte dalle nubi? Una squallida desolazione regnava sui monti e nelle valli.

Eppure, per quanto triste e brullo, il paesaggio non era privo di fascino per chi non vedeva da tanto tempo né un monte né un pianoro e sicuramente non ne avrebbe più visti per molti mesi.” (12)

Certo, le cose sarebbero state molto diverse se l’Erebuse la sua gemella, il Terror fossero approdate laggiù qualche mese prima. Durante l’estate antartica, le pianure s’ingentiliscono grazie ai vivaci colori di numerose piante fiorite, come Azorella, Pringlea e Festuca (13).

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

Mentre l’aria risuona dei richiami incessanti di migliaia e migliaia di uccelli migratori venuti di lontano, primo fra tutti l’albatro gigante. (14)

Ma ora tutto appare deserto, abbandonato. Come avvolto da un’atmosfera senza tempo. E sembra che l’aria fredda e umida, il cielo basso e la terra silenziosa siano sospesi, in attesa di qualcosa.

Ed ecco che il comandante di quel piccolo drappello, il trentanovenne sir James Clark Ross, si arresta improvvisamente senza poter trattenere un fortissimo moto di stupore. Mentre uno sguardo di meraviglia e d’incredulità passa dai suoi occhi a quelli dei suoi compagni, l’uno dopo l’altro.

Perché hanno visto tutti, chiaramente, qualche cosa che supera la loro capacità di comprensione. Qualche cosa che assolutamente non avrebbe dovuto essere lì.

Sul mantello di neve immacolata che copre ogni cosa si stagliano, nette, delle impronte di un qualche animale. Più precisamente, delle orme di zoccoli. (15)

Si allontanano dalla regione costiera per spingersi verso l’interno e si perdono in direzione delle alture.

Orme di zoccoli, laggiù, in capo al mondo!

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

E tutto lascia pensare che siano anche recenti, poiché, diversamente, la neve le avrebbe rapidamente cancellate.

I marinai britannici stentano a credere ai loro stessi occhi: come è possibile una cosa del genere?

Le ipotesi

Sorpresa e affascinazione sono, dunque, i sentimenti che James Clark Ross e i suoi compagni provano, in quel maggio del 1840, davanti alle impronte di zoccoli sulla neve dell’isola Kerguélen.

Dopo un comprensibile momento di stupore e quasi d’incredulità, si decide di tentar di andare a fondo nell’enigma. Così inaspettatamente presentatosi in quella remota terra dell’emisfero australe.

Il gruppo si mette a seguire le impronte, ma ben presto è costretto a fermarsi, deluso. Esse scompaiono improvvisamente su un terreno roccioso, non c’è più niente da fare.

Bisogna tornare indietro senza aver potuto dare una risposta alla domanda.

Qual è l’origine di quelle impronte? Dal momento che sull’isola non vi sono né ponies né altri animali in grado di lasciare orme simili?
James Clark Ross scrive subito un rapporto sullo strano episodio, ma esso passa praticamente inosservato.

La relazione del viaggio antartico di Ross, qualche anno dopo, viene bensì letta e apprezzata da un selezionato pubblico di specialisti. Ma non diviene mai quel che si dice, oggi, un best-seller.

E così, quasi certamente, il mistero delle impronte dell’isola Kerguélen sarebbe stato del tutto dimenticato. Se quindici anni dopo, quando il pubblico inglese è travolto dall'”affaire” delle cosiddette impronte del diavolo del Devonshire (febbraio 1855), qualcuno non si ricordasse di quella vecchia e strana storia.

E’ un corrispondente del London Illustrated News a rispolverare il rapporto dell’esploratore James Clark Ross. Ed a richiamare su di esso l’attenzione sovreccitata dei lettori del Regno Unito (27). Ma di questo parleremo fra breve.

Dobbiamo ora tentare di dare una qualche risposta agli interrogativi che il “mistero delle Isole Kerguélen” sollecita.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

E cercheremo di farlo con mente sgombra, per quanto possibile, da pregiudizi, senza per questo esser disposti a cadere nella credulità.
Un fatto naturale richiede, fino a prova contraria, una interpretazione di tipo naturale. Questa è una ovvia premessa di carattere metodologico.

E tuttavia il concetto di “evento naturale”, dopo le scoperte di fisici come Einstein ed Heisenberg, si è enormemente arricchito di valenze ignorate all’epoca della Rivoluzione scientifica del XVII secolo.

Il problema è che, mentre gli specialisti delle varie scienze (matematica, fisica, scienze naturali e scienze della psiche) sono perfettamente consapevoli di non poter studiare i fatti del mondo naturale.

Con lo stesso punto di vista di Francesco Bacone, Galilei, Cartesio o Newton. Gran parte dei divulgatori scientifici e, attraverso di essi, del pubblico dei non-specialisti, sono rimasti ancorati a una visione scientifica alquanto datata.

Quella, in sostanza, impostasi in Occidente, verso la fine del XIX secolo, con la filosofia del Positivismo.

Questa premessa era necessaria perché il campo del possibile, nella scienza contemporanea, si è molto allargat. Rispetto a quanto comunemente ammesso prima della “scoperta” delle matematiche non euclidee. Delle particelle sub-atomiche e della dimensione inconscia della psiche.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

La teoria dei quanti, nel campo della fisica, o il riconoscimento dei casi di personalità multipla. In quello della psicologia, per fare solo due esempi, hanno letteralmente rivoluzionato la nostra visione del mondo naturale.

Tuttavia era giusto, crediamo, almeno accennarvi, prima di tentare una modesta indagine sulla questione che ci eravamo proposta.
Ora, se è giusto – in una ricerca scientifica – partire dalla spiegazione più semplice di un determinato fenomeno naturale.

La prima ipotesi cui si è tentati di ricorrere per spiegare il mistero delle impronte viste dagli uomini della spedizione antartica di J.C.Ross è che esse siano state lasciate sulla neve da un animale introdotto dall’uomo.

Abbiamo ragioni per ritenere verosimile una tale ipotesi?

In linea di massima, saremmo portati a rispondere affermativamente a questa domanda. Nonostante il parere negativo espresso da James Cook circa le possibilità di sopravvivenza di animali introdotti dall’Europa’(vedi nota n. 24 del presente articolo.

Dopo la visita del capitano Cook, nel 1776, l’arcipelago delle Kerguélen divenne il punto d’incontro di cacciatori di foche e di balene. Che le usarono – come molte altre isole sub-antartiche – quale base provvisoria durante le loro spedizioni di caccia. Che potevano durare anche tre anni. (28)

Erano i tempi d’oro di quel genere di battute. Immortalati, fra l’altro, da romanzi famosi come Moby Dick di Herman Melville. Gli studiosi di botanica, e particolarmente di fitogeografia, sanno bene quali danni irreparabili quei cacciatori di foche e di balene portarono agli ecosistemi delle isole oceaniche.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

Perché, oltre a compiere stragi indiscriminate di cetacei e di pinnipedi, spesso fino alla totale estinzione, essi avevano preso l’abitudine di sbarcare a terra, in quelle isole, animali domestici destinati all’alimentazione degli equipaggi, particolarmente ovini e suini. (29)

Le capre e, in misura minore, le pecore e i maiali, si arrampiacavano dappertutto. Sterminando (ove ce n’erano) i piccoli mammiferi indigeni e gli uccelli più indifesi. Com’era successo al Dodo, uccello non volatore, dell’isola Mauritius, nel 1600. (30)

Ad essi si aggiungeva l’opera nefasta dei ratti. Viaggiatori clandestini di tutte le navi europee e nemici implacabili delle faune indigene.

Capre e pecore, poi, brucavano voracemente la vegetazione, sino a rendere brulle e spoglie delle isole un tempo ammantate di una ricca vegetazione. Tale fu il caso, ad esempio, dell’isola di S: Elena e dell’isola di Pasqua fra quelle sub-tropicali. Ed almeno in parte, della Nuova Zelanda, fra quelle di clima temperato.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

L’importazione casuale di piante infestanti di origine europea e quella volontaria di piante destinate ad uso agricolo dava poi il colpo di grazia a quei delicatissimi ecosistemi.

Che l’isolamento millenario aveva reso particolarmente vulnerabili rispetto ai competitori esterni. A tutto questo si aggiunga che gli Europei introducevano non solo animali da allevamento.

Ma anche selvaggina selvatica, come il cervo nella Nuova Zelanda o addirittura la renna nella Georgia Australe. Che i Norvegesi avevano trasformato in una stazione baleniera permanente. Con quali conseguenze sul mantello erboso originario, è facile immaginare.

Le impronte sull’isolaDunque, non si può escludere del tutto che le impronte viste sull’isola Kerguélen da Ross nel 1840 fossero dovute a una pecora o a una capra. Più difficile, ache se non impossibile, pensare a un maiale rinselvatichito. Animali portati da qualche baleniere allo scopo di potersi rifornire di carne fresca nel corso delle lunghe battute di caccia nei mari australi. In un’epoca in cui l’unico sistema di conservazione della carne era quello di metterla sotto sale e non poteva, comumque, garantirne la commestibilità a tempo indefinito.

Tutto chiarito, allora, e svelato il mistero?

In realtà, le cose non sono proprio così facili

Infatti, questa spiegazione offre indubbiamente il vantaggio della semplicità, il che corrisponde a una nota formula della filosofia scolastica. Secondo la quale non bisogna moltiplicare il numero degli enti quando è possibile spiegare la realtà con un numero più ristretto di cause. (31)

D’altra parte, essa presenta un inconveniente tutt’altro che trascurabile. E’ puramente congetturale e ha dalla sua il criterio della verosimiglianza logica, ma non quello della verifica concreta. 

Una finestra sull’ignoto

Proviamo allora a capovolgere, per pura ipotesi, il nostro paradigma scientifico. E ad ammettere che, se nelle isole Kerguélen non vi erano capre, pecore, maiali o addirittura cervi. E che le impronte di zoccoli sulla neve non possono essere spiegate con la presenza di tali animali.

Sul piano del ragionamento logico ristretto, questa è un’acquisizione concettuale non meno logica. Anzi si direbbe molto più logica, della precedente.

Quello che stride è il quadro di riferimento generale. I dati che abbiamo immesso, per così dire, nel computer; cioè che in quei luoghi non esistevano mammiferi di alcun tipo.

E dunque?

E’ giunto il momento di ritornare alla vicenda delle impronte del diavolo del Devonshire.

Che indirettamente aveva riportato di attualità, e messo a conoscenza di un vasto pubblico, la misteriosa scoperta fatta da J. C. Ross nell’isola di Kerguélen.

La mattina dell’ 8 febbraio 1855 gli abitanti del Devon scoprirono, uscendo di casa nel freddo intensissimo di quell’inverno eccezionale, una serie di impronte di zoccoli nella neve. Impronte disposte in linea retta e riconoscibili lungo una distanza totale di circa 80 miglia.

Non assomigliavano alle impronte di alcun animale conosciuto. Ma né questo fatto né la straordinaria lunghezza della traccia, che attraversava le campagne innevate in linea retta, rappresentavano la cosa più sconcertante.

Quest’ultima era costituita dal fatto che le impronte si snodavano una dietro l’altra. Tagliando diritto anche in presenza di ostacoli. Davanti ai muri dei giardini, per esempio, esse si fermavano per continuare dall’altra parte.

Come se lo sconosciuto animale li avesse saltati senza minimamente deviare. Anzi, come se li avesse “attraversati”.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

E la neve sulla cima dei muri era rimasta vergine!

In alcuni villaggi, poi, le impronte a ferro di cavallo erano ben visibili sui tetti delle case.

A parecchi metri d’altezza; oppure si fermavano davanti alla soglia di una capanna. 

Per ricomparire sul retro oppure ancora scomparivano davanti a un mucchio di fieno. E poi riprendevano al di là di esso, sempre in linea retta, come se la creatura vesse compiuto un salto prodigioso.

La popolazione ne fu terrorizzata:

furono organizzate, ma invano, delle battute di caccia con fucili e forconi. E ben presto nacque fra il popolo la voce che il Diavolo, in quella buia e fredda notte d’inverno, avesse passeggiato sulla Terra con piedi di caprone. Come ai tempi dei Sabba delle streghe.
Naturalmente anche il mondo scientifico fu messo a rumore, e parecchi naturalisti, tra cui il celebre Richard Owen, vollero dire la loro.

Si parlò di un tasso.

Ma quale animale selvatico poteva correre in in linea retta per la bellezza di 80 miglia? Coprendo una tale distanza in una sola notte?

E saltare a quel modo al di là dei muri e dei covoni di fieno, per poi salire sui tetti delle case? (33)

Qualcun altro ipotizzò che un pallone sonda si fosse alzato. Forse per disguido, dal porto militare di Devonport la sera del 7 febbraio, e che dei sacchetti pendenti da delle funi avessero lasciato le famose impronte. (34)

Certo che il vento doveva esser stato un prodigio di costanza. Per aver sospinto il pallone sonda così a lungo senza mai deviare né a destra né a sinistra!

Si parlò anche di un uccello. Di un canguro fuggito da uno zoo. Oppure di un buontempone in vena di scherzi fuori del comune.

Tutte ipotesi praticamente insostenibili e tutte rispondenti a una medesima logica.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

Il mistero non è una dimensione della realtà che va accostata con l’indagine razionale ma anche con umiltà e consapevolezza dei limiti umani. Bensì un nemico da aggredire, una sfida intollerabile da rintuzzare.

Un’inquietudine che va rimossa ad ogni costo per riportare la percezione del reale entro i binari rassicuranti di ciò che è già conosciuto.

In alttre parole, per la metalità scientista è preferibile cadere nell’assurdo. Un tasso che copre 80 miglia in poche ore, saltando muri e scalando edifici. Piuttosto che ammettere, anche solo per ipotesi, che si possa sollevare per un momento il velo della razionalità codificata dal paradigma scientifico dominante.

E si badi che il caso delle impronte del Devonshire non è affatto un unicum nella storia recente (per non parlare di quella antica). Per fare un solo altro esempio, ma se ne potrebbero fare parecchi, ricordiamo che il Times di Londra del 14 marzo 1840 (dunque, due mesi prima della scoperta di James Clark Ross nei mari antartici) riferì di impronte identiche a quelle trovate poi nel 1855.

Questa volta sulla neve di Glenorchy, nelle Highlands scozzesi. Con l’unica differenza che sembravano prodotte da una creatura che avesse proceduto a balzi piuttosto che al trotto. (35)

E ci siamo limitati alla sola Gran Bretagna. Ma impronte strane, o mostruose, sono state segnalate in ogni parte d’Europa e nell’arco di vari secoli.

E allora?

Certo non saremo noi a tirare in ballo l’ufologia, o l’occulto. Magari in chiave diabolica (per quanto rifiutiamo l’atteggiamento sprezzante di aprioristico rifiuto, proprio a molti divulgatori scientifici di formazione neopositivista).

Tornando al caso delle isole Kerguélen, gli elementi in nostro possesso sono troppo scarsi per arrischiare una spiegazione del fenomeno. Sia di tipo naturalistico sia d’altro genere. Mancano, ad esempio, i calchi o le riproduzioni delle impronte, mentre esistono nel caso del Devonshire di quindici anni dopo. (36)

Il fatto che le spiegazioni razionali avanzate si siano dimostrate poco convincenti non autorizza a saltare con ingenua disinvoltura nel campo dell’irrazionale.

Forse, però, nonostante tutto possiamo ricavare un insegnamento di carattere generale da questa intricata vicenda. Vicenda sollevata quasi per caso da una spedizione scientifica del 1840 in una dimenticata isola sub-antartica.

Ed è il seguente: vi sono cose per le quali la scienza naturale stenta a dare una spiegazione e che stenta perfino a contestualizzare nel paradigma scientifico perlopiù accettato. Non perché la scienza non disponga al momento di strumenti di ricerca sufficientemente sofisticati. Ma perché l’orizzonte concettuale della ragione calcolante è intrinsecamente inadeguato non solo a comprenderli, ma addirittura ad accettarli.

Stralcio tratto dall’articolo di Francesco Lamendola

Approfondimenti:

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